Fonte www.nonprofitonline.it - Sul sito del Sole 24 Ore, l'inserto "L'Esperto Risponde" di lunedì 8 aprile propone un approfondimento di Carlo Mazzini che, rispondendo al quesito di un lettore sulle condizioni per essere non profit, cerca di fare chiarezza sulla facile confusione di due importanti concetti: una cosa è dire ente senza scopo di lucro, altro è parlare della commercialità / non commercialità delle attività promosse.

Di seguito vi proponiamo il Punto di Carlo Mazzini, "Fiscalità di favore per enti non commerciali", rimandando all'inserto del Sole 24 Ore per la lettura completa dell'approfondimento (quesito, risposta, riferimenti normativi e giurisprudenziali).

Assenza di scopo di lucro e non commercialità sono concetti differenti, spesso confusi, soprattutto da chi promuove attività sociali attraverso la costituzione di organizzazioni non profit. L'assenza di scopo di lucro si basa su tre requisiti fondamentali riassumibili in:

1) divieto di distribuire nel corso della vita dell'ente, anche per via indiretta, gli utili, gli avanzi o le risorse disponibili dell'ente (si vedano anche i cinque punti elencati nell'articolo a fianco);

2) obbligo di reimpiegare gli utili nella realizzazione dei fini istituzionali;

3) obbligo di devolvere il patrimonio dell'ente, in caso di sua estinzione, a favore di un altro ente non profit o a fini di pubblica utilità.

Ognuno di questi requisiti assume significati specifici, basta ricordare cosa significa – ex articolo 10, comma 6, del Dlgs 460/1997 – la distribuzione indiretta degli utili per le Onlus, e che essa vale, comeribadito dall'amministrazione finanziaria, per tutti gli enti non commerciali. Il rispetto dell'assenza di scopo di lucro consente di entrare nel novero degli enti senza scopo di lucro, ma non ancora in quello degli enti non commerciali, regolati dal Tuir all'articolo 73, comma 1, lettera c, che li definisce enti pubblici o privati (trust inclusi) diversi dalle società, che non hanno per oggetto esclusivo o principale l'esercizio di attività commerciale.

L'oggetto esclusivo o principale dell'ente è reperibile dallo statuto (redatto in forma di atto pubblico, scrittura privata autenticata o registrata) e comunque – come ha ribadito la Cassazione – dall'attività effettivamente esercitata per il perseguimento degli scopi. Pertanto, anche il più nobile e altruistico degli scopi può essere realizzato o attraverso attività non commerciali oppure attraverso attività commerciali.

Le casistiche

Prendiamo innanzitutto il caso di una società che divide gli utili, che ha quale attività principale la commercializzazione di beni o servizi e destina parte degli utili per opere sociali. Essa può dedurre, in presenza di utili, le erogazioni secondo l'articolo 100, comma 2, del Tuir.

La seconda ipotesi è quella di una società che non divide gli utili e che ha per attività principale la commercializzazione di beni e di servizi, in ambiti definiti di utilità sociale; è il caso dell'impresa sociale ex Dlgs 155/2006, o delle cooperative sociali.

Terza situazione: un ente che non divide gli utili e che si caratterizza per non avere in via principale – e tanto meno esclusiva – la commercializzazione di beni o servizi, se non limitatamente a determinati ambiti, o verso particolari soggetti (ad esempio i soci). In questo caso, il legislatore promuove una fiscalità di favore che porta a non considerare commerciali particolari entrate. Pensiamo poi a un ente che, pur non dividendo gli utili, realizza in via principale attività commerciali non favorite dalla detassazione.

Si tratta del caso più controverso, quello che mette maggiormente in difficoltà i sodalizi che intendono perseguire alti scopi utilizzando però, a loro insaputa, uno strumento non corretto.

Due obiettivi

L'Unione europea e la fiscalità italiana devono tutelare due obiettivi. Il primo è il concetto di concorrenza libera e leale (si vedano il Trattato dell'Unione o la legislazione contro gli aiuti di Stato), che si ottiene permettendo la crescita economica attraverso la vigilanza su atti che potrebbero falsare l'accesso al mercato in condizioni di parità. Il secondo è quello di consentire ai cittadini di accedere a servizi o beni fuori mercato, ritenuti di utilità generale o rivolti a favore di soggetti svantaggiati. Non è facile raggiungere l'equilibrio tra questi due obiettivi.

Il problema principale è la mancata armonizzazione di ciò che è considerato commerciale e non commerciale per le diverse imposte. I concetti – dati i differenti presupposti – sono diversi, ad esempio, per Ires, Iva e Imu, e pertanto l'amministratore dell'ente non profit dovrebbe essere consapevole che una stessa attività può considerarsi non imponibile Ires ma soggetta a Imu, e comunque colpita da Iva. Ma si tratta di una conoscenza spesso non alla portata di persone che a titolo volontaristico si prendono carico dell'amministrazione dell'ente.

Una materia talmente intricata che anche nel Dm 200/2012 (Regolamento sull'applicazione dell'Imu agli immobili detenuti da enti non commerciali) i requisiti indicati dall'articolo 3 non sono quelli relativi alla non commercialità (come riportato nel decreto stesso) bensì quelli inerenti all'assenza di lucro.

Per maggiori informazioni

www.espertorisponde.ilsole24ore.com

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10 aprile 2013