Fonte www.informazionesenzafiltro.it - 2 aprile 2021: scocca una nuova giornata di consapevolezza sull’autismo, con il consueto retrogusto di una contraddizione di fondo. Perché la consapevolezza, per essere tale, va concretizzata tenacemente ogni giorno. È quello che chiedono da tempo a gran voce famiglie, associazioni e anche operatori dell’ambito, mentre spesso sul fronte istituzionale le cose si limitano all’apparenza, con i palazzi illuminati di blu e bouquet di dichiarazioni utili solo a prestare il fianco a Vanity Fair.

Non sapere nel 2021 che cosa sia l’autismo non è più giustificabile. Si stima che in Italia siano circa 600.000 le famiglie coinvolte e che uno studente ogni 77 ricada nello spettro autistico. La maggior parte degli studi concorda nell’affermare che è una condizione in crescita.

È innegabile che importanti passi avanti siano stati fatti, ma la situazione attuale ci rivela ferocemente, sul fronte italiano, le gravi lacune in diversi ambiti che mettono a repentaglio l’inclusione di chi convive con la condizione autistica.

Essere consapevoli significa anche fare luce sul sommerso. Con SenzaFiltro vogliamo scoperchiare le parti più scomode di un segmento focale per la questione: quello delle diagnosi e terapie che coinvolgono sia il settore pubblico (costituito dalle UONPIA – Unità Operativa Neuropsichiatria Psicologia Infanzia Adolescenza), sia il settore privato. Parliamo quindi di figure come neuropsichiatri, logopedisti, psicomotricisti o neuropsicomotricisti, psicologi, terapisti ABA, musicoterapisti, ippoterapisti, arteterapisti, eccetera. La lista sarebbe lunga e non entriamo nel merito dei ruoli o degli approcci menzionati, purché agiti con correttezza. Non dimentichiamo nemmeno i tanti esempi virtuosi rappresentati da questi professionisti, ma qui vogliamo mettere a fuoco, senza omertà o edulcorazioni, i numerosi casi – quasi mai tutelati – di negligenza e danno provocati proprio da chi ricopre questi ruoli. Un danno che va a discapito non solo dei bambini e ragazzi autistici, ma anche dei professionisti seri.

Benedetta Demartis, ANGSA: “Nelle UONPIA mancanza di personale e preparazione inadeguata”

Per affrontare in maniera approfondita il nostro tema abbiamo contattato Benedetta Demartis, per anni alla guida di ANGSA – Associazione Nazionale Genitori PerSone con Autismo. Il suo è un osservatorio prezioso, oggi in veste di vicepresidente, madre di una ragazza con disturbo dello spettro autistico e anche creatrice di iniziative territoriali, in sinergia con altre famiglie.

Partiamo dal tema UONPIA. Al di là degli esempi virtuosi, che esistono, le famiglie denunciano spesso che questi servizi non sono in grado di garantire un’adeguata presa in carico dei loro figli con disturbo dello spettro autistico, lamentando soprattutto forti ritardi nella presa in caricoterapie a singhiozzo o persino gestite da persone poco competenti, subentrate dopo diagnosi imprecise o errate. Che cosa ci può dire Benedetta dal suo osservatorio?

“Ci sono diversi fattori che agiscono contemporaneamente. Uno è dato dal fatto che le UONPIA nel tempo sono state sempre più impoverite di organico: io le chiamo le cenerentole della sanità, e nonostante ciò devono far fronte a un numero di casi fortemente aumentato e a un vero e proprio sovraccarico. Da un lato quindi posso comprendere la difficoltà. Questo però l’ha denunciato anche la SINPIA, ossia la Società Italiana di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza, con una lettera inviata all’ex presidente Conte e che abbiamo sottoscritto. L’altro difetto è rappresentato dal personale non adeguatamente formato o non aggiornato sulle indicazioni delle linee guida internazionali rispetto all’autismo. In pratica le UONPIA propongono solo quello che hanno: logopedia e psicomotricità, non presenti tra l’altro nelle linee guida. Il risultato è ciò che vediamo: la mancanza di una vera presa in carico”.

Altra questione emersa dalle famiglie è che s’imbattono in medici o terapisti che magari non dimostrano nemmeno empatia: “È così, inoltre manca un lavoro di rete. Come ANGSA insistiamo sul fatto che questa debba essere una presa in carico di tipo sociosanitario. Purtroppo in diverse regioni sociale e sanità sono due realtà staccate, e mancano persino le piattaforme che permettono di condividere le cartelle cliniche tra neuropsichiatrie infantili e dipartimenti di salute mentale, impedendo così un passaggio armonico di informazioni tra i referenti per l’età evolutiva e quella adulta. L’Istituto Superiore di Sanità sta provando a rimediare creando una cartella unica”.

Come possono le famiglie avere quindi voce in capitolo? “Non esiste purtroppo uno strumento perché nel servizio pubblico manca una formazione dedicata alla qualità dell’intervento e alla relazione. Non essendoci l’obbligo resta impossibile richiamare coloro che operano senza questa qualità”.

C’è anche il paradosso delle UONPIA che si vantano magari di attivare screening precoci dei segnali nei bambini con sospetto di disturbo del neurosviluppo per elaborare tempestivamente le diagnosi; ma poi prima di attivare le terapie possono passare numerosi mesi, se non anni: “Il tema della diagnosi precoce è una beffa – chiosa Demartis – perché poi di fatto non ti propongono nulla o molto poco, e a noi genitori viene l’ansia del tempo che passa e che non può essere perduto”.

Quando il privato guadagna sull’autismo. I genitori: “Se il bambino migliora è merito loro, se peggiora è colpa nostra”

Ci agganciamo così al tema dei servizi del privato, foraggiato paradossalmente proprio dal pubblico che zoppica. Non sono rare purtroppo le vicende di abuso psicologico ed economico perpetrate da persone che operano in quest’ambito sfruttando l’autismo come mezzo di guadagno selvaggio: “È vero, a causa delle mancanze del servizio pubblico noi genitori siamo i primi a dirottare sul privato per trovare una qualità che anche qui spesso risulta essere una chimera. All’inizio non riusciamo a capire se un terapista è valido o meno: l’inutilità o le lacune dell’intervento ce le rivela il nostro bambino che fa scarsi progressi, non migliora o addirittura regredisce. A volte ci impieghiamo anni per scoprirlo, e si resta imbrigliati con persone che ci fanno credere che la loro strada sia l’unica possibile. Intanto perdiamo tempo, soldi ed energie inutilmente”.

I servizi dovrebbero essere la cornice che sostiene il quadro e invece a volte lo fanno crollare. I genitori, già toccati da stanchezza e preoccupazione, rischiano di essere preda di strumentalizzazioni: che cosa si sta facendo per tutelarli? “Come ANGSA stiamo vigilando affinché anche nell’aggiornamento delle linee guida per l’autismo venga definito scientificamente che cosa è valido, che cosa no e quali siano gli interventi terapeutici prioritari, dando a noi famiglie gli strumenti per difenderci, perché altrimenti siamo davvero alla mercé di chiunque cerchi di guadagnare sulla nostra pelle”.

Dinamiche disoneste derivano però anche da professionisti che possiedono tutte le “carte” in regola tra lauree, master e specializzazioni: così l’abuso è ancora più difficile da dimostrare. “Purtroppo sì, e ANGSA con ANFFASS stanno lavorando insieme a sette scuole e università italiane che organizzano master ABA per elaborare un registro di garanzia, sia sulle competenze che devono avere i docenti, sia su quelle che devono avere gli studenti alla fine del percorso formativo. Vogliamo mettere dei punti fermi: una persona che ha appena terminato una formazione non può essa stessa formare, deve prima fare un percorso che dimostri quantità e qualità dell’esperienza concretizzata”.

Balza all’occhio come questo ambito lavorativo sia particolarmente pervaso da una tendenza autoreferenziale: quella del mancato rendere conto all’utente del proprio servizio. “Confermo, le frasi più frequenti che noi genitori ci sentiamo dire è che nostro figlio non migliora perché non abbiamo seguito bene le indicazioni ricevute, oppure non facciamo generalizzare le competenze, eccetera. Insomma, se il bambino migliora è merito loro, se peggiora o non migliora è colpa nostra. Si scarica molto la responsabilità sulla famiglia già provata, ma ci si dovrebbe chiedere se chi è pagato stia per primo portando avanti o meno un buon percorso formativo o di aggiornamento”.

Servizi scarsi o qualitativamente bassi. Così diversi genitori, per tamponare la situazione, sono costretti loro stessi a diventare “terapisti” e a lasciare la loro occupazione: tutto ancora delegato alla famiglia? “No, così non va bene. All’interno della FISH ci stiamo battendo per sbloccare la legge sui caregiver: credo sia giusto riconoscerlo come lavoro per chi sceglie di farlo. Al contempo ritengo però doveroso che i servizi funzionino adeguatamente e che le persone al loro interno lavorino bene, rendendo conto di ciò che fanno, perché noi genitori abbiamo pieno diritto a mantenere il nostro, di lavoro, senza essere costretti a fare quello per cui altri sono pagati”.

Per continuare a leggere l'articolo in versione integrale clicca qui