Fonte - www.convegni.erickson.it - Al decimo convegno Erickson La Qualità dell’integrazione scolastica e sociale - a cui ha partecipato anche Anffas Onlus con il suo consulente legale l'Avv. Gianfranco de Rortis - cinquemila persone hanno come sempre intensamente discusso, ascoltato, parlato, negoziato idee ed esperienze per una vera Qualità. Questi convegni sono ormai diventati un momento, strutturale e non episodico, di crescita collettiva di un pensiero inclusivo che è la base etica, professionale, civile del lavoro quotidiano nella scuola e nella società.

Per tradizione il Convegno si chiude sempre con una mozione che propone al Paese gli orizzonti per migliorare la Qualità. È su questa base di partecipazione civile che quest’anno, a differenza di altre mozioni del passato, questa mozione mette a fuoco un solo aspetto, anche se cruciale, sui temi dell’inclusione legate alla contingenza del presente, nella fattispecie la legge 107/2015 "Buona Scuola" e il già noto comma 181, lettera c.

Naturalmente le questioni aperte sull’inclusione sono molte, ma il tema caldo del convegno, come era inevitabile, riguarda la formazione degli insegnanti. I presenti al convegno offrono quindi questa mozione alla discussione politica, culturale, sociale e giuridica sul destino dell’insegnare nella scuola inclusiva.

TRE PARADIGMI DI BASE

1.Pedagogia, pedagogia, pedagogia. È una questione storica negativa italiana la formazione iniziale degli insegnanti quanto meno opaca sui fondamenti teorici e pratici dell’insegnare, soprattutto nella scuola secondaria. Il tema non riguarda l’inclusione, ma l’istruzione tout court di tutti gli insegnanti, per tutti gli studenti, qualsiasi sia la loro condizione. Dunque è necessario che la pedagogia diventi davvero il cuore professionale dell’insegnare.

2.L’inclusione è l’eterogeneità. È giunto il tempo sociale, economico, antropologico, di considerare l’idea di scuola inclusiva come l’unica idea possibile di scuola normalmente democratica e capace di vincere le grandi sfide della modernità. Riconosciamo l’eterogeneità umana come condizione naturale delle società e delle persone in cui nessuna diagnosi o certificazione o stigma sociale risponde al riconoscimento dell’originalità e unicità di ogni singola persona, che non è una sommatoria di performance e di sintomi, ma qualcosa di più, qualcosa di diverso perché tutti siamo orgogliosamente imperfetti e tra noi diversi. L’inclusione, nell'epoca della globalizzazione è quindi tema trasversale e universale per tutti. Ciò significa considerare l’inclusione la questione centrale e non accessoria e non solo dedicata a chi per scientismo, ideologia o pregiudizio viene considerato una specie di dio minore.

3.Contrastare il neo darwinismo. L’epoca attuale presenta condizioni economiche e sociali, nazionali e internazionali, che rischiano nuove forme di discriminazione, di diseguaglianze che sfidano l’orizzonte democratico dei nostri sistemi educativi. Nell’evoluzione del welfare e delle politiche sociali attuali il rischio di chi non rientra nelle idolatriche categorie della perfezione competitiva, è di essere sottoposto a nuovi modelli di cura isolante. La tendenza può determinare la messa al centro del sintomo e non della persona, con la conseguenza di un assistenzialismo buonista e di una falsa inclusione.

SULL'INSEGNARE INCLUSIVO OGGI

Riconosciamo onestamente tutti i deficit di qualità di carattere organizzativo, contrattuale, collegiale, relazionale, culturale nei quali, spesso, l’inclusività viene di fatto ridotta, se non negata. Tutte le nostre mozioni di questi vent’anni ribadiscono la necessità, ad esempio, di cambiare radicalmente rotta sulla formazione iniziale, e in servizio, degli insegnanti e che il sostegno è attività della classe non una pratica a sé stante. Comprendiamo quindi bene la sofferenza di molte famiglie per un’inclusione dei propri figli in forme discontinue, opache, a volte dilettantesche. La macchinosa gestione delle risorse umane rischia burocraticamente di tutelare posti, ma non pedagogie. Alcune volte ci pare persino che un alunno con disabilità non sia un alunno in carne ed ossa, ma solo un pretesto per altro (cattedre, carriere, nomine, ecc).

Nonostante tutto, però, crediamo che al cuore dell’inclusione ci sia la classe, cioè la comunità di relazioni tra pari e tra adulti come unico luogo possibile di una inclusione non illusoria. Sta nella realizzazione della speciale normalità il pensiero lungo che ha pervaso questi venti anni di ricerca, confronto e studio tra di noi. Riconosciamo però che è diffuso il rischio di confondere didattiche inclusive, giustamente individualizzate, con cure riabilitative, metodologismi e tecniche che esaltano il sintomo e non le persona nella comunità educativa. Noi non condanniamo a priori approcci terapeutici o riabilitativi, ne comprendiamo il significato, ma riteniamo necessario un equilibrio per evitare che il tecnicismo diventi ideologicamente assorbente dell’intero percorso educativo. Didattica, terapia, tecniche non sono sinonimi, non vanno contrapposti, ma neppure confusi. Non ci piace né la pedagogia della chiacchiera, né la tecnica come mito miracolistico. Le contraddizioni tra una confusa inclusione e i rischi di medicalizzazione vanno con coraggio affrontati anche con un dibattito epistemologico, scientifico e culturale tra tutti i professionisti che si occupano di umanità.

SEI PROPOSTE PER UN’INCLUSIONE DI CLASSE

1.Sulla formazione iniziale di tutti gli insegnanti c’è consenso unanime perché questa abbia una consolidata dignità pedagogica, in cui l’inclusività sia lo sfondo integratore e anche argomento elettivo di acquisizione di competenze attive per tutti gli insegnanti della scuola italiana. Deve quindi realizzarsi un curricolo universitario in cui l’inclusività sia trasversale in tutti gli insegnamenti e specifica per non meno di trenta crediti. L’inclusività riguarda tutti gli alunni e tocca la quotidianità delle didattiche per l’attenzione che dà al singolo, e insieme al valore che dà al collettivo come comunità di apprendimento. Appunto come dice il titolo di questa mozione: l’inclusione è questione di classe. La formazione universitaria degli insegnanti deve quindi essere unitaria, strutturalmente inclusiva, professionalmente qualificata soprattutto sulle didattiche (individualizzate, di gruppo, di ricerca, di cooperazione, di tecnologia interattiva), qualsiasisia l’ordine, grado, disciplina di ogni futuro insegnante.

2.Sulla formazione specifica di quelle professionalità cui finora abbiamo attribuito il termine “sostegno” con una vasta area di interpretazione, la discussione è stata particolarmente vivace e ha presentato posizioni diverse. Universalmente si condivide la formazione iniziale, come abbiamo appena detto, e la formazione obbligatoria in servizio, di cui parleremo più avanti. Invece la questione della formazione al sostegno ha trovato due posizioni diverse. La FISH ha confermato la su aproposta di una laurea ad hoc con percorsi accademici paralleli e non aggiuntivi, e ruoli separati. Va riconosciuto, però, che la grandissima parte dei presenti a questo Convegno propone invece, dopo la formazione iniziale unitaria e comune, percorsi accademici di specializzazione come arricchimento della professione docente.L’ipotesi condivisa è di titoli acquisiti sia con un intero anno accademico, sia con altri ulteriori arricchimenti. Questo modello risponde ad una visione ricca e articolata della professione docente in genere che deve avere un cuore robusto, ma articolarsi con ulteriori competenze non solamente in temi di inclusività, ma anche nelle nuove esigenze professionali della scuola. L’architettura in cui si immagina la specializzazione inclusiva è quella di prevedere figure di sistema, come arricchimento e supporto sia ai singoli casi che alla scuola nel suo insieme, adeguatamente formate e non casualmente selezionate. Questa tesi, larghissimamente condivisa, parte dall’assunto che se la formazione iniziale di tutti all’inclusione sarà effettivamente realizzata non vi sono ragioni per immaginare “specialisti collaterali” che rischiano, loro malgrado, di accentuare e non di ridurre la delega diffusa tra gli attuali docenti curriculari. Immaginiamo dunque un insegnante di sostegno prima di tutto insegnante, con una formazione aggiuntiva e solida di servizio all’inclusione per ogni singolo alunno, ogni singola classe, ogni collega. Quindi non una professione “altra”, ma più ricca, trasversale, partecipata, insomma un mestiere di rete. Una professione arricchita, sempre strutturalmente pedagogica, può dunque appartenere ad una nuova articolazione delle professioni docenti, non solo nel sostegno, che rompa la tradizionale monotonia della separazione tra cattedre e discipline.

3.Vanno profondamente rivisti i curricola e i percorsi formativi di tutti gli alunni. I curricola attuali peccano ancora di separazioni epistemologiche tradizionali e di dominio dei contenuti sulla mescolanza dei saperi, su competenze attive che favoriscano lo sviluppo dei talenti di ogni alunno. Senza pretendere per forza che tutti ottengano tutte le stesse cose, nello stesso momento e nella stessa quantità. L’autonomia didattica e curriculare della scuola va pienamente realizzata perché solo l’autonomia e la flessibilità creano una rete di comportamenti attivi e interattivi, ma capaci di creare inclusione. Abbiamo bisogno di un curricolum inclusivo non di una check list di discipline e contenuti.

4.Va definitivamente rotto il modello consociativo contrattuale sulla gestione delle risorse del personale. La stabilità e la continuità degli insegnantiè un valore irrinunciabile. Lo è anche perché favorisce la nascita di una comunità professionaleriflessiva, che progetta, condivide, costruisce la qualità. Il precariato, se questa volta scompare davvero, non può essere sostituito da insegnanti di ruolo volatili di anno in anno. Non c’è inclusione senza stabilità.

5.La stabilità obbliga anche a ripensare al significato del concetto costituzionale di libertà di insegnamento che non è per noi anarchica differenza di gusti didattistici, ma rigorosa responsabilità deontologica professionale in cui la scelta didattica libera di ogni docente, si misura con i diritti inclusivi e di autorealizzazione di ogni singolo alunno.

6.Formazione durante tutto l’arco della vita professionale. Non possiamo che essere lieti del ritorno della formazione obbligatoria dei docenti. Non c’è una delle nostre mozioni di questi ultimi vent’anni che non citi tale mancanza come una vergogna. Ma in tema di inclusione vorremmo porre, come cautela, una suggestione finale. Desideriamo che la formazione sia di classe, cioè diciamo no alla convegnistica predicatoria, alla vendita chiavi in mano di ricette di verità, ma soprattutto diciamo sì a: ricerca-azione, ricerca-azione, ricerca-azione. Gli insegnanti sono portatori di saperi, di teorie esplicite e implicite, il loro primo bisogno è capirsi e scoprire partendo dal proprio vitale caos, parafrasando Mancuso, per trovare ognuno il proprio logos. Se la formazione non fosse attiva, partecipata, costruttiva diventerebbe solo un mercato per nuovi seduttori. La formazione all’inclusione si fa includendo, si fapartendo dalla classe, cioè dal lavoro quotidiano. Perché l’inclusione è una questione di classe.

17 Novembre 2015