Fonte www.repubblica.it - "Io spero che l'Aldilà non esista, perché se esistesse vedrei mio figlio dopo che sono morta. E questo sarebbe terribile. Non passa giorno che io non pensi a cosa succederà dopo di me, ma il futuro è solo un brutto pensiero". Rita è la madre di Emanuele, un uomo di 51 anni affetto da disabilità mentale. Lei è stanca, la faccia di chi ha sempre dovuto lottare nella vita. Cosa succede ai figli con disabilità alla morte dei genitori? Una domanda che costringe in uno stato di angoscia milioni di famiglie. Sì milioni, perché i numeri sono alti. Secondo le stime dell'Istat il 25,5% degli italiani, oltre 13 milioni di individui, soffre di una qualche forma di disabilità e circa 3 milioni di questi sono affetti da disabilità gravi che comportano il massimo grado di difficoltà nelle funzioni motorie e sensoriali.

Gesti estremi. Rita è insieme ad altre madri nella Casa museo dello sguardo sulla disabilità, uno spazio inusuale nel cuore di Roma, dove persone con e senza disabilità condividono spazi, tempo e orari di lavoro. Parlano dei figli, dei problemi di gestione delle loro disabilità, ma nessuna riesce ad affrontare il problema del "dopo". Non esiste, non può esistere.

Lo spettro degli Istituti di cura, le residenze sanitarie dove finiscono i casi di indigenti rimasti orfani, fa paura. Ida lo dice in modo chiaro: "Io in quei ghetti non ce lo mando. Finché ci sarò io, mio figlio sta bene con me". Sì, ma dopo?

I "ghetti", come li chiamano in molti fra i genitori dei figli  con disabilità, sono spesso centri di residenza con oltre 60 posti letto dove, secondo le stime dell'Anffas, l'Associazione nazionale famiglie di persone con disabilità Intellettiva e/o relazionale. Ed è qui che finiscono oltre il 65% delle persone con disabilità intellettiva.

Nel migliore dei casi questi posti somigliano a degli ospedaletti, altrimenti diventano dei veri e propri gironi danteschi. Come l'Istituto San Giovanni XXIII di Serra d'Aiello, in Calabria, dove per anni hanno vissuto fra violenze di ogni tipo quasi un migliaio di "ospiti" forzati. Ci sono volute 3 inchieste e un danno erariale stimato sui 150 milioni di euro prima di arrivare alla sua definitiva chiusura nel 2009. Per questo la disperazione porta a volte a gesti estremi, come quello di uccidere il proprio figlio e se stessi piuttosto che abbandonarlo a un destino così crudele. I casi di Mantova o di Gallipoli, solo per citare i più recenti fatti di cronaca nera, parlano di un abisso fatto di solitudine e isolamento.

La politica ci prova. L'urgenza di dare una risposta a tutto questo ha spinto una cordata bipartisan a presentare una proposta di legge sul "Dopo di noi", oggi in attesa di essere votata alla Camera. Ileana Argentin, Pd, da anni impegnata nelle battaglie per i diritti dei disabili è ottimista: "Ci troviamo di fronte a una svolta - dice - Per la prima volta viene riconosciuto il problema in Parlamento e a esso si dedica un capitolo di bilancio separato". Finora infatti i soldi venivano stanziati esclusivamente per le non autosufficienze, cioè a sostegno dei cittadini con disabilità non in grado di svolgere una vita autonoma. Fondi che negli ultimi anni sono stati oggetto di continui tagli.

Così i fondi scarsi e l'enorme platea di casi umani cui erano destinati, hanno avuto l'effetto di mancare totalmente l'obiettivo della tutela dei più deboli. Il tentativo di porre un freno a tutto ciò ha dato vita a un testo di legge che nell'immediato andrà a interessare circa 430mila persone con disabilità cognitiva. I cosiddetti "gravissisimi" con genitori sopra i 65 anni che fino a oggi non sono stati in grado di auto-rappresentarsi. A questi sono indirizzati 90 milioni di euro per il 2016, impegnati per la ricerca di soluzioni alloggiative di tipo familiare.

Il paradosso dell'aspettativa di vita. Oggi le aspettative di vita media per chi soffre di disabilità cognitiva sono raddoppiate rispetto al 1975, passando da meno di 30 anni a 64, e spesso si sopravvive ai genitori. La soluzione migliore sarebbe quindi quella di creare delle piccole comunità con pochi posti letto, più simili a case famiglia che a istituti, a gestione autonoma o semi-assistita, a seconda dei casi. Realtà che in parte esistono già sul territorio, ma che solo in pochissimi casi ricevono le sovvenzioni statali. Manca infatti una normativa di riferimento e alcune di queste strutture sono addirittura giudicate illegali. Come nel caso di un esperimento compiuto a Ragusa, dove un gruppo di mamme si è dovuto auto organizzare per dare vita a un tentativo di vita in comune in completa autonomia. Purtroppo, nonostante la piena disponibilità degli enti locali a dare il proprio contributo, la Asl non è riuscita a trovare un collocamento giuridico. Solo un primo passo. Iniziative come questa di fatto rimangono totalmente private.

Anche per questo Roberto Speziale, presidente di Anffas, esprime la sua soddisfazione per il primo passo verso il riconoscimento di quella che chiama un'emergenza sociale: "La legge sul 'Dopo di noi' è giusta e doveva essere scritta. Ma questo non è che un punto di partenza. Il rischio che si continuino a sovvenzionare i grandi istituti preferendoli a soluzioni più 'casalinghe' esiste ancora, mentre al centro deve essere posta la persona e non la sua disabilità o i posti di lavoro che essa può generare". La tentazione business. Le "residenze sanitarie assistite" (Rsa) a volte possono essere infatti un business. Secondo Speziale a un esame dei costi e dei benefici appare chiaro: "Se per un paziente in casa famiglia si spendono dai 30 ai 50 euro al giorno, in un grande centro i costi lievitano fino a 150-180 euro. Questo perché mantenere un centro ad alta intensità, dove cioè è presente personale sanitario e infermieristico 24 ore su 24, può essere costoso".

Una media annua quindi che oscilla dai 10 fino ai 20mila euro per una posto in casa famiglia, fino a 60 o 70mila euro annui nelle Rsa. Ma non tutti, anzi solo pochissimi, avrebbero bisogno di personale sanitario 24 ore al giorno. La maggior parte dei casi infatti può contare sull'indennità di accompagnamento o sugli assistenti sociali, a cui si provvede già con le pensioni di invalidità e altre sovvenzioni. Queste sono le figure di riferimento fondamentali per la realizzazione di una parziale o totale autonomia, obiettivo finale cui si dovrebbe aspirare secondo le direttive della convenzione Onu ratificata dall'Italia nel 2009.

Per leggere l'articolo integrale clicca qui

15 gennaio 2015