Fonte www.vita.it - *"Forse è solo una metafora, ma la mia sensazione è quella di scrivere dal fronte di una guerra improvvisa a cui nessuno di noi operatori sociali era preparato. Il fronte dei servizi per la disabilità. Quel luogo di frontiera dove ormai da qualche anno siamo tutti impegnati a lavorare sulla linea di confine tra inclusione ed esclusione sociale. A lavorare per promuovere la qualità della vita attraverso la promozione dell’autodeterminazione delle persone e la loro partecipazione alla comunità. Ad abbattere le barriere più che a crearne di nuove.
In un attimo questa linea è implosa, ha ceduto. Non ha retto l’onda d’urto generata dall’esplosione del contagio. In un attimo ci siamo ritrovati tutti in ritirata. Chiudere tutto. Segregare e contingentare spazi. Impedire uscite. Cercare mascherine guanti e camici. Buttarsi a capofitto a scrivere e riscrivere protocolli para-militari per evitare contagi attraverso la riduzione delle relazioni e dei contatti tra le persone. Un “rinculo” pazzesco. Un colpo che ci ha storditi.
Da subito, ai primi di marzo, l’incredulità per gli amici di Codogno: confinanti di provincia, confinati senza più la possibilità di muoversi. Le chiamate ed i messaggi alla Cooperativa Amicizia per sapere come si stanno riorganizzando e come fanno a reggere. La nostra solidarietà e il nostro affetto per loro. Ma subito dopo, in un attimo, anche noi con loro obbligati all’isolamento.
Ancora frastornati ci siamo subito rivolti alle istituzioni. Alla Regione, alle ATS e ai Comuni. Ma anche le istituzioni sono in difficoltà, pressate dall’emergenza sanitaria. E quindi facciamo fatica ad ottenere risposte. Chiudiamo o stiamo aperti? Cosa chiudiamo e cosa teniamo aperto? Un grande movimento in ordine sparso… La Regione garantisce l’apertura dei servizi essenziali ma in Lombardia molti Comuni e molti enti gestori preferiscono chiudere. Le famiglie ci chiedono. Meglio frequentare il centro diurno o non frequentarlo? Quando un servizio è essenziale? Che differenza c’è tra la frequenza di un CSE e la frequenza di un CDD? Possiamo venire in Comunità a trovare i nostri figli?
E noi operatori a nostra volta ci interroghiamo. Perché chiudono le scuole e noi dobbiamo andare al fronte? Come facciamo senza le mascherine? Come facciamo a chiudere servizi ed a lasciare a casa persone che non possono stare casa? Se chiudono i servizi o se gli utenti non vengono ed io sto a casa dal lavoro, il mio stipendio è garantito? Le risposte mancano.
Mentre dal fronte arriva la certezza che l’esplosione ha fatto davvero male. Due “ragazzi” di Vigevano dei nostri sono positivi; uno è grave ed è ricoverato (tuttora) in condizioni critiche. È mancato un “ragazzo” a Brescia, alla data del decesso la vittima più giovane del COVID 19. E poi i contagi che crescono per noi operatori. E i primi decessi anche tra il personale sanitario. Siamo davvero in guerra. E ci tocca combattere. E allora eccoci. In prima linea.
In caso di positività accertata o di grave sintomatologia, tracciamento di tutti i contatti diretti e indiretti tra utenti e operatori. Su un foglio A3 perché è più grande, con penne colorate per differenziare le linee di contatto, diretto o indiretto. Ricostruendo a ritroso via chat tutti i contatti e le relazioni. Fino a notte fonda. Poi la mattina in servizio, a riorganizzare tutti i turni e le attività. Basta uscite. Basta luoghi pubblici. Basta condividere il personale e gli spazi. Operatori ed utenti ciascuno blindato all’interno del perimetro e del confine del proprio luogo. E dove non si può, si apprestano nuovi luoghi? Possiamo farlo? Siamo in emergenza, procediamo. E il pomeriggio divisi tra incontri con gli operatori, con gli opportuni distanziamenti, e lo studio delle ordinanze. E la sera a riscrivere i protocolli. E la notte attaccati ad internet ad aspettare il DPCM, il decreto #SalvaItalia, no il #CuraItalia. E la mattina dopo a telefonare alle istituzioni per capire come applicarli.
Ma le domande a cui non sappiamo rispondere aumentano anziché diminuire. Se una persona positiva viene dimessa dall’ospedale, può tornare in comunità? Come facciamo a separarla dagli altri? La mettiamo in casa di riposo? Sono sicure le case di riposo in questo momento? Riusciamo ad organizzare dei luoghi di quarantena o anche dei luoghi di isolamento abbastanza sicuri per chi non ha famiglia? In alcune province lo stanno facendo…
Intanto i contagi crescono e gira voce che fra i criteri dei triage arriverà presto, se non è già arrivato, l’ordine di salvare soltanto chi ha più probabilità di farcela…
Un vortice di movimento e di tensione dentro i servizi fino al 12 marzo, mentre tutt’intorno il mondo prova a rallentare… Poi la chiusura di tutto… Dei bar in particolare. E il mondo che comincia a fermarsi… E ci troviamo avvolti tutti da un silenzio surreale. Affascinante perché aprendo le finestre o stando in cortile si sentono le voci delle persone e i rumori della natura. Ma tragico. Perché interrotto ogni giorno di più, solo dalle sirene delle ambulanze. Si fermano anche “i ragazzi” dei centri. Come la maggior parte dei cittadini. Abituati ad uscire, a lavorare ed a passeggiare ed improvvisamente ripiombati nella routine delle mura di casa o del centro residenziale. Senza operatori per chi sta a casa. Con operatori sempre più impauriti e bardati con mascherine e camici “fai da te”, dentro i servizi residenziali e dentro quei pochi diurni riconvertitisi in prestazioni alternative di sostegno più o meno domiciliare, se il domicilio o il CDD non sono più praticabili.
In alcuni servizi si avverte il rischio del caos, perché mancano gli operatori, perché mancano le mascherine. Ci si appella alla rete, si grida la propria solitudine attraverso i social. Mentre in altri servizi, sembra paradossale, ma questo arresto improvviso sembra reggere. “Non ci sono più scazzi tra operatori”. Anche i ragazzi più irrequieti sembrano aver capito. Si adattano alla noia, al rallentamento progressivo. Ma per quanto? E le famiglie a casa senza supporti resisteranno? La prima linea insomma è in ritirata ormai da 15 giorni. Ci si arrangia come si può. Trincerati. Misurando la febbre più volte al giorno. Ai “ragazzi” ed agli operatori. Per legge, come da protocollo. Dalle retrovie al momento non emergono segnali incoraggianti. Perché l’onda d’urto del Covid19 è tutt’ora molto forte.
E anche noi “colonnelli”, abituati a far di conto, a progettare e governare, a dialogare e confrontarci sui tavoli istituzionali e nelle reti associative siamo un po’ disorientati. Un po’ rifugiati nella “chatteria” di whatsapp, in un crescendo isterico e quasi compulsivo che comprende tuttora un insieme surreale di cazzate per esorcizzare la paura, di ordinanze e documenti ufficiali da studiare, applicare, interpretare, spiegare e diffondere; talvolta presi da un’ansia incomprimibile di comunicare l’ultima notizia e l’ultimo resoconto come se fosse davvero l’ultimo; ma in tutto questo compressi e di corsa a cercare mascherine ed a provare ad aiutare le istituzioni ad aiutarci.
Al momento non sembrano ammesse riflessioni. Anch’esse compresse dal peso dell’azione. Ci mancherebbe altro. L’importante sembra essere agire. Ma chi sta al fronte e sente il pese quotidiano di questa pressione, alcune domande se le pone. Ce la faremo? Quanto riusciremo a resistere? Sarà una ritirata resiliente che ci consentirà di ripartire con più slancio o sarà una mazzata brutale che farà deserto dei nostri slanci inclusivi e della nostra voglia di orientare i servizi a lavorare sempre per promuovere il benessere e la qualità della vita delle persone? Cosa ci sostiene e cosa ci sta aiutando di più a tenere duro?
Due sensazioni, non ancora una riflessione compiuta. Ce la faremo? Superato lo stordimento iniziale, mi sembra che dai nostri servizi, dai nostri operatori, dagli utenti e dai familiari, insomma dalla prima linea del fronte, stia uscendo alla grande, ancora una volta il meglio della nostra capacità. E cioè una forza sempre meno disperata e sempre più consapevole, capace di assorbire anche l’urto del fallimento, della perdita e della mancanza. Una sorta di “capacità negativa” ad assumere la sfida dell’emergenza, che trova radici profonde dentro ciascuno di noi, per come siamo fatti e per come affrontiamo quotidianamente la nostra vita, anche in tempo di guerra, ma anche dalla nostra capacità di stare insieme, in rete, in relazione.
Il virus colpisce i nostri servizi e le nostre organizzazioni almeno tre volte: individualmente, aggredendo il nostro corpo e la nostra salute; socialmente, obbligandoci all’isolamento, a separarci e ad isolarci; strutturalmente, aggredendo le nostre progettazioni inclusive che orientano i servizi a promuovere il benessere e la qualità della vita. Ma allo stesso tempo, proprio nella resistenza a questa aggressione, il virus ci sta aiutando in modo stringente a moltiplicare le nostre sinergie e le nostre connessioni organizzative; forzati dalle contingenze, il virus sembra in grado di aiutarci a rompere senza indugio molti steccati e molte barriere che noi stessi abbiamo eretto. Se non ci organizziamo insieme, non riusciremo a prendere in tempo le mascherine. E se non ci mettiamo d’accordo tutt’insieme tra enti pubblici, enti gestori e associazioni, per tenere aperti i diurni o chiuderli, saremo tutti responsabili dei disagi e delle sofferenze. E se ci sono persone che non possono stare a casa ed i servizi sono chiusi, non potremo fare a meno di co-progettare insieme, in emergenza, soluzioni alternative, anche temporanee che prima non c’erano. Questo sembra valere, insieme, sia per le istituzioni e gli enti pubblici, sia per le nostre organizzazioni sociali del terzo settore.
Dico questo perché, dal fronte della prima linea, se dovessimo dire che cosa ci aiuta e cosa ci sostiene in quest’azione di resistenza… direi che abbiamo bisogno di decisioni capaci di abbandonare il principio gerarchico ispirato alla logica burocratica del “per quanto di nostra competenza”, tipico dei sistemi di governo ottocenteschi. Abbiamo bisogno di decisioni capaci di affidarsi alla più razionale e ragionevole logica del principio di corresponsabilità. In cui la decisione non la assume chi ha il potere di farlo. Ma la assumiamo insieme. Ascoltando in prima istanza chi è capace. Chi è competente. Chi sta combattendo al fronte, come il medico cinese che è finito in carcere prima di morire per aver allertato il governo e la popolazione del rischio che il paese ed il mondo stavano correndo.
L’emergenza ci sta dicendo che dobbiamo imparare a confrontarci con problemi e cambiamenti complessi, attraverso la logica della complessità. Abbandonando sistemi di governo e di management burocratici, verticali, rigidi… Costruendo proprio a partire da questa esperienza di guerra improvvisa, sistemi capaci di lasciarsi investire dall’emergenza e di governarla senza farsi da questa travolgere. Ma ricavando da essa le informazioni necessarie per ri-pensare e ri-progettare il futuro. Insieme. Corresponsabilmente."
*Marco Bollani, Direttore della Cooperativa Come Noi di Mortara (PV) e Tecnico Fiduciario Anffas Lombardia Onlus