Fonte comunicato stampa AIPD - Chi sono, come vivono, quali supporti hanno e soprattutto quali non hanno le persone con sindrome di Down e le loro famiglie? A queste e ad altre domande hanno provato a rispondere Censis e AIPD, con l’indagine “Non uno di meno. La presa in carico delle persone con sindrome di Down per il perseguimento del miglior stato di salute e la loro piena integrazione sociale”, condotta dal Censis insieme ad AIPD.
I dati saranno presentati e commentati mercoledì 9 novembre alle 15 a Roma, presso il CNEL (Sala del Parlamentino – Viale David Lubin 2), I dati saranno illustrati da Gianfranco Salbini (presidente AIPD), Anna Contardi (già coordinatrice nazionale di AIPD) e da Ketty Vaccaro (Responsabile area Welfare e Salute del CENSIS). A commentarli, interverranno Eugenio Barone (Membro DS Task Force e Professore associato di Biochimica, La Sapienza Università di Roma), Franco Deriu (INAPP), Luca Trapanese (Assessore alle Politiche sociali, Comune di Napoli), Salvatore Nocera (Avvocato, esperto in legislazione scolastica), Walter D’Avack (Rai – Pubblica utilità). L’evento sarà trasmesso in diretta streaming sul canale YouTube del CNEL.
Ed ecco una sintesi della ricerca.
Quando viene meno la scuola, c’è spesso il nulla e non resta che “stare a casa”: è la realtà che vive quasi il 50% delle persone adulte con sindrome di Down, specialmente al Sud e nelle isole. Poco più del 13% ha un lavoro da dipendente o collaboratore, solo il 35% percepisce uno stipendio normale e non minimo. Il 48% fa fatica ad orientarsi nei servizi sanitari e sociali. Il bisogno e la richiesta delle famiglie sono di ordine sociale, più che assistenziale: educazione all’autonomia e alla vita indipendente sono le principali richieste d’intervento delle famiglie. Sono i primi dati emersi dall’indagine Da marzo a maggio, quasi 1.200 questionari sono stati compilati e raccolti su tutto il territorio nazionale, tramite 38 sedi coinvolte, presso le famiglie delle persone con sindrome di Down.
Un primo dato interessante riguarda la percezione del livello di disabilità da parte del caregiver: con l’aumentare dell’età della persona con Sindrome di Down, aumenta anche il livello di gravità percepito. Oltre i 45 anni, la disabilità viene percepita come grave dal 20,9% degli interessati e come molto grave dal 18,6%, con una netta impennata rispetto alla fascia d’età 25-44, quando la disabilità è percepita grave dall’8,2 % e molto grave appena dall’1%. “E’ un primo segno di come manchino servizi, supporti e in generale risposte soprattutto per gli adulti con Sindrome di Down”, commenta Anna Contardi, coordinatrice nazionale di AIPD, che ha seguito l’indagine. “E questo indica una strada alle istituzioni e a noi associazioni”.
Altro dato interessante riguarda l’impatto della Sindrome di Down sul lavoro del caregiver: risulta infatti che il 25,9% delle caregiver donna ha ridotto il lavoro, mentre il 20,4% ha lasciato il lavoro o lo ha perso.
Riguardo la diagnosi, sempre più spesso questa viene comunicata ai genitori fin dalla gravidanza e risulta, questa, una nuova conquista: ben il 46,4% dei genitori dei bambini tra 0 e 6 anni ha ricevuto la diagnosi prima della nascita del figlio, a fronte dell’appena 1.5% dei genitori tra i 25 e i 45 anni. “Merito del progresso della medicina e della diagnostica, ma anche segno importante della volontà dei genitori di portare avanti la gravidanza anche dopo aver appreso la notizia”, commenta Ketty Vaccaro.
Alla domanda su quali siano “le cose che più hanno aiutato i genitori ad affrontare positivamente la situazione nei primi tempi”, la scelta ricade per lo più (circa il 40%) sul supporto relazionale di genitori, parenti e amici.
Riguardo il contesto di vita, è da notare come solo l’1,2% del campione viva in una struttura residenziale, mentre la stragrande maggioranza abita nella propria casa.
Ma “cosa fanno le persone con Sindrome di Down”? La risposta a questo interrogativo varia a seconda della fascia d’età. Nello specifico, col passare degli anni, aumenta il tempo trascorso in casa o nel centro diurno. Fino a 14 anni, oltre il 90% del campione frequenta la scuola, mentre tra 25 e 44 anni il 39,3% lavora, il 24,3% frequenta un centro diurno e il 27,6% sta a casa. La situazione si aggrava dopo i 44 anni, quando appena il 9% lavora, il 41,3% frequenta un centro diurno, ma ben il 44,8% “non fa nulla” e sta a casa. Indipendentemente dall’età, la tendenza a “stare a casa” è prevalente al Sud, dove riguarda ben il 33% del campione, a fronte dell’8,8% che dichiara di stare a casa nelle regioni del Nord Est.
Per quanto riguarda la scuola, le difficoltà dell’inclusione vengono indicate soprattutto nella scarsa preparazione degli insegnanti curricolari (è questa la risposta prevalente, soprattutto quando si parla della fascia 15-24 anni), ma anche degli insegnanti di sostegno, specialmente dal campione tra 15 e 24 anni. E’ nelle scuole superiori, evidentemente, che la scuola inizia a mostrare maggiori carenze nell’offerta formativa e inclusiva per gli studenti con disabilità.
Per quanto riguarda l’accesso ai servizi, è stato chiesto ai caregiver se nella propria Asl di appartenenza sia presente un servizio pubblico o convenzionato dedicato alle persone con disabilità intellettiva. Poco meno della metà segnala la presenza di questa tipologia di servizio e tra questi tutti lo utilizzano. È alta la percentuale di chi non è informato (28,8%) mentre il 23,7% dichiara che questa tipologia di servizio non è presente. Interessante notare come questo dato vari anche sulla base del livello di istruzione dei rispondenti: solo il 34,6% di chi ha il titolo di studio più basso (tendenzialmente si tratta anche dei caregiver più anziani) afferma che il servizio è presente, contro il 55,5% dei laureati. Anche la quota di chi afferma di non essere informato è più elevata tra chi ha un livello di istruzione basso (37,0% contro il 21,0%): la mancanza d’informazione condiziona evidentemente lo stesso utilizzo dei servizi.
L’indagine ha voluto verificare se gli intervistati possono contare su una presa in carico da parte del servizio pubblico del loro territorio fondata sulla predisposizione di un Piano di presa in carico. Solo il 26,0% del campione afferma che il piano è stato realizzato, il 24,0% dice che è stato predisposto ma è solo formale e/o ha una applicazione parziale, mentre nella metà dei casi il piano non è stato predisposto. Ancora una volta emergono differenze significative a livello territoriale: al Sud, il 73,2% dei caregiver afferma che il piano per la presa in carico della persona con sD di cui si occupa non è mai stato realizzato.
La vita sociale si esprime per lo più in attività strutturate, mentre risulta molto difficoltosa nelle attività informali: oltre il 50% non riceve mai amici e non va a casa di amici, oltre il 60% non esce mai con amici. Ma quasi il 90% partecipa ad attività sportive o simili. Il 24% ha una vita relazionale affettiva e il 2,5% ha una relazione sessuale, percentuale quest’ultima che sale a 4,3% tra i 25 e i 44 anni: “Segno che i tempi stanno cambiando e che ci stiamo lasciando alle spalle quella visione ‘angelicata e asessuata’ delle persone con Sindrome di Down che ha caratterizzato il passato”.
Riguardo il lavoro, il 13,3% del campione ha un contratto da dipendente o collaboratore.
In generale, le difficoltà principali incontrate dalla famiglia riguardano l’integrazione nella scuola e nella società (51%) e la fatica di orientarsi tra i servizi sociali e sanitari (48%). Molto significativi i dati sulle proposte d’intervento: la scelta ricade per lo più su progetti di educazione all’autonomia e alla vita indipendente (47,9%), sull’offerta di servizi per il tempo libero (42,3%) e su politiche d’inclusione lavorativa (35,5%) e presa in carico complessiva della persona (33,8%). In continuità e coerenza con questo dato, c’è quello relativo a “la cosa più importante che dovrebbe fare la società per le persone con Sindrome di Down”: ben il 53,3 chiede di “promuoverne l’autonomia e l’inserimento sociale e lavorativo”, mentre il 4,6% domanda di “migliorare e potenziare i servizi medici e riabilitativi”.
Infine, per quanto riguarda il “costo sociale” della Sindrome di Down, il Costo Medio Annuo per Paziente (CMAP) stimato risulta pari a 27.677 euro. Nello specifico, i costi diretti (cioè quelli legati alle spese direttamente monetizzabili sostenute per l’acquisto di beni e di servizi) rappresentano il 15% dei costi complessivi mentre, i costi indiretti, per definizione a carico della collettività, rappresentano l’85% del totale: si tratta di costi sostanzialmente legati agli oneri di assistenza che pesano sul caregiver, che sono stati monetizzati e risultano pari a 23.513 euro all’anno.
Molto c’è quindi ancora da fare e l’indagine offre al mondo della politica, ai servizi e alle istituzioni una chiara pista di lavoro.