Fonte www.vita.it - Non è una citazione dotta, né un riferimento normativo: quando scrivo di persone con disabilità, per “sentire” se le parole sono giuste mi basta pensare al primo caffè che ho preso con Francesco, tanti anni fa. Francesco è una persona con sordocecità: davanti alla macchinetta si gira, mi urta inavvertitamente, sorride e dice “scusa, non ti avevo visto”. Tutto qui. Sarò controcorrente, ma in un momento in cui siamo sommersi dai decaloghi sulle parole da non dire e dalle discussioni su maschile, femminile e schwa, la mia sensazione di fondo (piuttosto pressante a dire il vero), è che “le parole giuste per comunicare la disabilità” debbano avere a fare con la naturalezza.
Mongoloide, handicappato, autistico… i media possono legittimare o delegittimare un certo linguaggio, è vero, ma ormai è condiviso che ci sono parole che non si usano, stop, e non si usano davvero più. Nella società forse sì, ma non sui media. Gli orrori macroscopici come quello di cui sono stati protagonisti ancora pochi giorni fa Fedez, Luis Sal e Emanuel Cosmin Stoica non sono il linguaggio dei colleghi, di chi fa informazione. Nei media (ma nella comunicazione in generale, anche sui social, per esempio), invece vedo di più il rischio di una narrazione della disabilità e sulle persone con disabilità che tende a posizionarsi sempre e solo sui due estremi: il racconto pietistico e strappalacrime da un lato e quello eroico dall’altro, con persone con disabilità come supereroi che vincono tutto.
Anche a noi piace raccontare storie positive, che possono ingaggiare ed incoraggiare (il “si può fare” è potentissimo), ma innanzitutto vorremmo dare a chi ci legge - e non necessariamente ha consapevolezza di cosa significa concretamente la disabilità - la sensazione che la disabilità sia un pezzo ordinario della quotidianità.
Come si declinano allora nel nostro lavoro quotidiano i grandi e bei principi su cui si impernia l’attuale visione della disabilità? Certezze come il dire che la disabilità non è una malattia; che la disabilità non è insita nella persona ma sta nella relazione con l’ambiente; che la persona non è la sua disabilità… si concretizzano solo nell’utilizzo della locuzione “persona con disabilità” piuttosto che del semplice “disabile”? Sì, anche, ma soprattutto prendono corpo in una narrazione capace di far toccare con mano il fatto che le persone con disabilità possono vivere bene la loro vita individuale e partecipare alla vita comune, se hanno l'assistenza necessaria e una società che le sa accogliere, con i loro bisogni e con i loro sogni. Perché, come dice Valentina Perniciaro, una super protagonista della nuova narrazione della disabilità sui social, «non c’è una vita che possa essere esclusa dall’immaginario di felicità e socialità».
Cambiare l’immaginario collettivo sulla disabilità attraverso la comunicazione e la narrazione significa oggi assumersi la sfida di renderla familiare e ordinaria. Un racconto, penso, che si può fare solo dando sempre di più la parola direttamente alle persone con disabilità, portandole a raccontarsi con quelle che sono le parole giuste per loro. Sui social questa dinamica è già in atto: ci sono ragazze e ragazzi giovanissimi che ci stanno mettendo la faccia, con un linguaggio che talvolta forse ci fa arricciare il naso, forse eccessivo, forse sopra le righe… ma stanno già cambiando la narrazione della disabilità.
Accenno soltanto ad altro aspetto del “comunicare la disabilità, il ruolo dei media”, che per VITA è molto importante: voler parlare delle risposte ai bisogni delle persone con disabilità (leggi, servizi, welfare…) portandole fuori dalla nicchia degli “addetti ai lavori” significa credere che queste non siano solo risposte alla fragilità ma temi di sviluppo del Paese. Superando anche, nella narrazione, l'approccio esclusivo della risposta ai bisogni e dando spazio anche alle risposte ai sogni.
E se in un titolo, per brevità, scriviamo disabili anziché persone con disabilità, passatecelo: già nel 1993 Sabina Santilli, la donna sordocieca che ha fondato la Lega del Filo d’Oro, in una nota scriveva che «in buon italiano non si usa sempre dire “persone sordocieche”, perché si sa che i sordociechi sono persone». Trent’anni dopo, nel 2023, che dite? “Si sa” lo mettiamo come affermazione o come domanda?