Fonte www.superando.it - Documento di Economia e Finanza (DEF) è un provvedimento molto rilevante nell’attività legislativa, e quindi di programmazione, perché indica le linee essenziali che poi trovano traduzione nelle norme di bilancio discusse e approvate dal Parlamento solitamente nell’ultima parte dell’anno. Ed è proprio in questi giorni che il ministro dell’Economia e delle Finanze Pier Carlo Padoan ha illustrato le intenzioni governative, presentando appunto il DEF per l’anno (e gli anni) a venire.
Una delle novità, o meglio quella che qui attira il nostro interesse, è il tema della valutazione di impatto delle politiche economiche del Paese.
In molti contesti e consessi, nazionali e internazionali, accademici e politici, si è dibattuto sulla reale efficacia dei classici indicatori adottati per valutare lo “stato di salute” di un Paese. Al contempo molti indirizzi internazionali dell’Unione Europea sospingono i singoli Paesi ad adottare – con specifici obiettivi e traguardi – politiche per una migliore qualità della vita dei cittadini: dall’istruzione all’ambiente, dall’occupazione alla buona amministrazione.
Un esempio recente: nel corso del Vertice ONU sullo Sviluppo Sostenibile, svoltosi a New York nel settembre dello scorso anno, le Nazioni Unite hanno approvato l’Agenda Globale 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, e i 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDGs nell’acronimo inglese), organizzati in un sistema di 169 target e oltre 200 indicatori, con i quali vengono delineate a livello mondiale le direttrici dello sviluppo sostenibile dei prossimi anni. Aspetti che possono sembrare lontani dalla quotidianità, ma che, al contrario, dovrebbero impattare sulla quotidianità di miliardi di persone.
È chiaro, quindi, che indicatori di tipo meramente economicistico, per quanto raffinati, non sono più sufficienti a tratteggiare l’effettivo benessere dei cittadini, delle imprese, delle istituzioni e dei servizi e di intervenire adeguatamente. E nell’ultimo DEF, quello appunto in via di presentazione, si rileva un timido accenno in tal senso. Padoan, infatti, annuncia l’adozione di quattro indicatori, definiti «particolarmente significativi per la qualità della vita dei cittadini e della società nel suo complesso»: il reddito medio disponibile pro capite, l’indice di diseguaglianza del reddito disponibile, il tasso di mancata partecipazione al lavoro e le emissioni di CO2 [anidride carbonica, N.d.R.] e di altri gas clima alteranti [se ne legga anche nel box in calce, N.d.R.].
In realtà per chi segue questi àmbiti non è una sorpresa. L’origine di tale scelta va rintracciata nella più recente riforma della nostra Legge di Bilancio, che prevede l’inclusione degli indicatori di benessere equo e sostenibile tra gli strumenti di programmazione e valutazione della politica economica nazionale. E, come detto, si inserisce, più complessivamente, nel più ampio movimento di pensiero che ha coinvolto istituzioni, organizzazioni non profit, mondo accademico e della ricerca, in un intenso dibattito per il “superamento del PIL” [Prodotto Interno Lordo, N.d.R.], quale unico strumento di misurazione del benessere e del progresso di una comunità.
Se infatti alcuni indicatori di natura macroeconomica, come ad esempio lo stesso PIL, sono elementi entrati in modo consolidato nella programmazione e nella valutazione politica, gli indicatori di natura sociale e ambientale hanno invece visto riconoscersi solo di recente un ruolo di orientamento delle politiche pubbliche. È emersa quindi la necessità di produrre dati e informazioni in grado di integrare e migliorare la misurazione della qualità della vita.
È piuttosto nota, in tale contesto, la pubblicazione, nel settembre del 2009, del Rapporto Stiglitz Sen Fitoussi del 2009, in cui ritroviamo 12 raccomandazioni per misurare il benessere di una società in tutte le sue dimensioni, e valutarne la sostenibilità nel tempo.
Ma vediamo come i risultati di questo dibattito si dovrebbero tradurre operativamente nel nostro Paese.
La riforma della Legge di Bilancio (Legge 4 agosto 2016, n. 163) prevede, all’articolo 14, la costituzione di un Comitato che selezioni e definisca gli indicatori utili alla valutazione del benessere equo e sostenibile, sulla base dell’esperienza maturata a livello nazionale e internazionale. Essa, quindi, dispone la redazione di due documenti, da parte del Ministero dell’Economia e delle Finanze, avvalendosi dei dati forniti dall’ISTAT (articolo 1, comma 6, lettera g).
Il primo di essi, da allegare al DEF, intende illustrare l’andamento, nel precedente triennio, degli indicatori di benessere individuati dal Comitato, nonché le previsioni sulla loro evoluzione, anche in funzione delle misure adottate per il perseguimento degli obiettivi di politica economica.
Il secondo, da presentare al Parlamento entro il 15 febbraio di ogni anno, serve a evidenziare l’evoluzione dell’andamento degli indicatori di benessere sulla base degli effetti determinati dalla Legge di Bilancio relativa al triennio in corso. La sfida del Comitato per gli indicatori di benessere equo e sostenibile, e più in generale del mondo della ricerca, è quindi quella di fornire le informazioni e i dati necessari per supportare il Governo nell’individuazione delle aree problematiche, su cui concentrare la programmazione economica, e nella valutazione degli esiti delle misure adottate, rispetto alle condizioni di benessere raggiunte.
Su questo ha iniziato a lavorare il Comitato, istituito con relativo Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, potendo anche avvalersi dell’esperienza maturata dall’ISTAT con l’elaborazione annuale del Rapporto sul Benessere Equo e Sostenibile (BES), arrivato nel 2016 alla sua quarta edizione. Il BES nasce da un progetto realizzato dall’ISTAT, inizialmente in collaborazione con il CNEL, per individuare gli indicatori statistici più adeguati al fine di misurare il benessere, nelle sue dimensioni economiche, ambientali e sociali. Il Rapporto sul BES offre quindi un quadro integrato dello “star bene” di una comunità, analizzando un ampio spettro di indicatori (130), suddivisi in 12 domìni: salute; istruzione e formazione; lavoro e conciliazione dei tempi di vita; benessere economico; relazioni sociali; politica e istituzioni; sicurezza; benessere soggettivo; paesaggio e patrimonio culturale; ambiente; ricerca e innovazione; qualità dei servizi.
Lo studio analizza sia l’andamento del set di indicatori semplici individuati, sia la dinamica di alcuni indicatori compositi, ottenuti dall’aggregazione di quelli semplici in un unico valore sintetico, calcolati però solo su alcuni domìni (9 dei 12 individuati) per ragioni di ordine metodologico.
Si possono cogliere analogie tra i gli indicatori del BES e gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile dell’ONU (SDGs): la finalità comune, infatti, è quella di offrire un quadro integrato di informazioni quantitative e, nel caso degli SDGs, comparabile a livello internazionale, per la misurazione del benessere e dello sviluppo sostenibile.
Nella presentazione del DEF, il ministro Padoan fa però riferimento solo a quattro indicatori semplici, da impiegare in fase di programmazione delle misure di finanza pubblica e di valutazione della loro efficacia. Ripetiamo di quali indicatori si tratta: il reddito medio disponibile pro capite, l’indice di diseguaglianza del reddito disponibile, il tasso di mancata partecipazione al lavoro e le emissioni di CO2 e di altri gas clima alteranti.
In questa sede – tenendo separata dal ragionamento la questione della salute ambientale, e fermo restando l’apprezzamento per il percorso avviato, che riconosce i limiti del PIL come indicatore del progresso sociale e che punta a una migliore misurazione del benessere – occorre avanzare alcune considerazioni.
I tre indicatori considerati rimangono al momento sbilanciati sul benessere economico e sul lavoro come fonte di reddito, ma non tengono ancora sufficientemente conto delle diverse forme di diseguaglianza che permangono nel nostro Paese. È necessario quindi un forte impegno per identificare e misurare indicatori ulteriori rispetto a quelli oggi previsti, e per avviare, anche con il coinvolgimento delle parti sociali e delle organizzazioni di advocacy (“tutela legale”), un processo di costruzione e implementazione di indicatori ulteriori, rispetto a quelli oggi rilevati dalla statistica ufficiale.
Il pensiero va ovviamente alla definizione di indicatori che siano coerenti con il dettato della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, e che permettano quindi un monitoraggio appropriato delle disuguaglianze esistenti, sui cui intervenire, e delle condizioni da rimuovere per accrescere il benessere di tutti i membri della comunità. Lo ricordiamo: nella Convenzione ONU uno specifico articolo (il 31°) richiama l’obbligo degli Stati a «raccogliere le informazioni appropriate, compresi i dati statistici e i risultati di ricerche, che permettano loro di formulare ed attuare politiche» di protezione dei diritti umani e per valutarne l’effettivo rispetto.
Purtroppo i nostri sistemi statistici – nonostante alcuni timidi tentativi spesso limitati ad indagini – non hanno ancora sistematicamente adottato in modo stabilizzato indicatori utili a delineare, quantitativamente e qualitativamente, la disabilità e, quindi, la diseguaglianza. In un Paese in cui non è dato sapere, ad esempio, quale sia l’effettivo tasso di inoccupazione delle persone con disabilità o che non ha rivisto i criteri per il riconoscimento stesso della condizione di disabilità, auspicare l’adozione di indicatori efficaci in tal senso rimane purtroppo ancora una chimera.
Una chimera che volteggia sopra le disuguaglianze senza potervi incidere. L’istanza, anche sugli indicatori, è quindi tutt’altro che tecnica.
*Daniela Bucci è direttore responsabile di «Condicio.it – Dati e cifre sulla condizione delle persone con disabilità», progetto della FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap); Carlo Giacobini è direttore editoriale di «Superando.it» e responsabile del Servizio HandyLex.org.
18 aprile 2017