Un interessante articolo che ci spiega come sia necessario impostare valutazione dello sviluppo centrata su indicatori diversi dal benessere economico
Fonte: superando.it
- a cura di Giuliano Giovinazzo. Oltre a dimostrare che i tagli alle
spese sociali causano pesanti conseguenze sanitarie sulla popolazione, una
recente ricerca pubblicata dal «British Medical Journal» rende anche del tutto
chiaro che lo sviluppo non può basarsi solo sulla crescita del Prodotto Interno
Lordo (PIL), ma deve comprendere, come parte sostanziale, anche la qualità di
vita di tutte le persone, comprese quelle con disabilità. Vediamo perché,
basandoci sia su quanto scritto da Paul Benkimoun nell'autorevole quotidiano
francese «Le Monde», sia sulle riflessioni ad ampio respiro proposte da
Giampiero Griffo, uno dei "padri italiani" della Convenzione ONU sui Diritti
delle Persone con Disabilità. Anche per capire che le esternazioni dell'estate
scorsa del ministro Tremonti, sui «milioni di invalidi che rendono l'Italia non
competitiva», si rifanno a concetti ormai insostenibili, anche da un punto di
vista economico
« I tagli praticati alla spesa
sociale dai governi europei, al fine di ridurre i disavanzi di bilancio,
sono dolorosi dal punto di vista economico, ma rappresentano allo stesso modo un
costo in termini di vite perdute ». Lo ha scritto recentemente
Paul Benkimoun* , sull'autorevole quotidiano francese «Le Monde»,
commentando uno studio pubblicato qualche mese fa dal «British Medical Journal»
(lo si legga integralmente cliccando
qui ).
A condurre tale ricerca sono stati David Stuckler
dell'Università di Oxford, Sanjay Basu del General Hospital di San
Francisco e Martin McKee della London School of Hygiene and Tropical
Medicine, i quali hanno sviluppato un modello matematico, basato sui dati delle
variazioni della spesa sociale e della mortalità di quindici Paesi
dell'Unione Europea dal 1980 al 2005 (fonte dei dati l'OCSE,
l'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico). Qui per spesa
sociale si intende, come da definizione della stessa OCSE, «l'erogazione, da
parte di istituzioni pubbliche e private, di benefìci e contributi finanziari
destinati a famiglie e individui, allo scopo di fornire loro un sostegno in
presenza di circostanze che incidono negativamente sul loro benessere».
In
ogni caso, dallo studio è emerso che ad ogni aumento di 100 dollari a persona
(circa 91 euro) del Prodotto Interno Lordo (PIL), si associa in modo
significativo una diminuzione dello 0,11% della mortalità, considerando
qualsiasi causa di decesso. E tuttavia, a un equivalente aumento della spesa
sociale, corrisponde un abbassamento della mortalità di ben sette volte
maggiore (0,80%).
Va poi considerato che con un aumento di 100 dollari a
persona della spesa sociale (spese sanitarie escluse),
diminuiscono del 2,8% i decessi correlati all'alcool, dell'1,2% la mortalità
dovuta a problemi cardiovascolari, dello 0,62% le morti per suicidio e del 4,34%
quelle dovute alla tubercolosi. Di contro, a un aumento di 100 dollari a persona
della spesa sanitaria consegue una diminuzione dello 0,82% della
mortalità per cancro, dello 0,28 di quella per cause cardiovascolari e del 3,15%
di quella per suicidio, mentre i decessi dovuti all'alcool e alla tubercolosi
aumentano rispettivamente dello 0,97% e del 2,11%. «Un paradosso? - si
chiede Benkimoun -, non proprio, in quanto queste due ultime cause di mortalità
legate alla povertà sono molto più sensibili all'effetto protettivo della
spesa sociale che a quello della spesa sanitaria». Nel caso dei decessi per
cancro, infine, secondo gli autori dello studio non esiste una relazione
plausibile a breve termine tra la salute e la spesa sociale.
I ricercatori
concludono quindi affermando che «i programmi sanitari e sociali appaiono come
le determinanti maggiori della salute futura della popolazione e questo dovrebbe
essere preso in considerazione nell'ambito del dibattito economico in
corso ».
A commentare tutto ciò per Superando è Giampiero Griffo,
membro dell'Esecutivo Mondiale di DPI
(Disabled Peoples' International) e anche uno dei componenti della
delegazione italiana che nel corso di molti anni ha contribuito all'elaborazione
della Convenzione ONU sui
Diritti delle Persone con Disabilità. (G.G.)
Gli esiti dello
studio di Stuckler, Basu e McKee fanno emergere due considerazioni di base.
La prima è che oggi nei Paesi ricchi di tutto il mondo si sta procedendo a
un drastico taglio della spesa sociale, ritenendo che questa sia una
condizione irrinunciabile per riuscire ad essere competitivi con Paesi emergenti
quali la Cina, l'India o il Brasile ecc.
Il dibattito - quasi mai reso
esplicito per la delicatezza dell'argomento - tira in ballo la corsa dei Paesi
emergenti, che ottengono ogni anno incrementi di PIL significativi, rispetto
agli "zero-virgola" registrati dai Paesi ricchi. L'elemento implicito è che i
sistemi di welfare degli Stati industrializzati rappresentano un peso per lo
sviluppo economico, rispetto a quegli Stati emergenti che non hanno welfare
importanti. Si renderebbe quindi "necessario" tagliare i fondi in questo
settore. Questa ricerca ha dunque il merito di mettere in chiaro che è falso
sostenere che a questi tagli non corrispondano delle pesanti conseguenze.
La seconda riflessione riguarda un altro aspetto, non certo di poco
conto, e cioè il fatto che lo sviluppo non può basarsi solamente sullo
sviluppo economico e quindi sul PIL. L'economista e filosofo francese
Serge Latouche - ponendosi insieme a molti altri il problema della
sostenibilità dell'uso delle risorse mondiali e dei benefìci per tutti i popoli
- ha riflettuto su questo tema, proponendo una valutazione dello sviluppo
centrata su altri indicatori (benessere delle persone; servizi
all'inclusione; sostenibilità ambientale ecc.), prevedendo per i Paesi ricchi
anche una riduzione dello sviluppo economico legato all'incremento del PIL, a
favore di altri elementi connessi alla qualità di vita delle persone.
Quanto
delineato dalla ricerca, in realtà, andrebbe ulteriormente sviluppato,
poiché viene fatta emergere solamente la correlazione tra investimenti nel
sociale e mortalità. In realtà - seguendo l'approccio dell'economista indiano
Amartya Sen [ Premio Nobel per l'Economia nel 1998, N.d.R .] sulla
cosiddetta capability, emerge che investire nel sostegno all' empowerment
["rafforzamento", qui inteso in senso generale, N.d.R.] delle persone
escluse e svantaggiate (donne, immigrati, persone con disabilità ecc.) ha una
correlazione diretta con lo sviluppo. Infatti, è sempre più chiaro che negli
ultimi decenni lo sviluppo economico centrato sul sistema capitalistico ha
progressivamente incrementato il numero di persone escluse a cui gli
Stati - particolarmente nell'Unione Europea - cercano di far fronte con varie
forme di ammortizzatori sociali.
Una serie di studi e riflessioni più
recenti hanno invece messo in evidenza che il sociale in senso lato non è avulso
dallo sviluppo e anzi che lo sviluppo si fa con l'inclusione e non con
l'esclusione. Quanto più si escludono le persone dai processi di
cittadinanza e di sviluppo, tanto più la gente esclusa entra in una "spirale
negativa", fino al punto di incrementare anche le percentuali di mortalità. E
quanto più le persone vengono escluse dalla società e dalla partecipazione alle
decisioni che le riguardano, tanto più si producono effetti negativi. In
tal modo, infatti, esse vengono percepite come un "peso economico", a cui sono
relegate proprio dai meccanismi di esclusione sociale, subendo, nello stesso
tempo, pesanti violazioni dei loro diritti umani.
In effetti una cosa
è chiara: le logiche di mercato non tutelano i diritti umani delle persone,
anzi tendono a violarli continuamente. Non è un caso la pletora di autorità
indipendenti - sulla privacy, sulla concorrenza ecc. - che cercano di mitigare
le conseguenze derivanti dalla logica del profitto.
Nel secondo dopoguerra -
con la nascita delle Nazioni Unite che si basavano sul rispetto dei diritti
umani - si è avviata una globalizzazione dei diritti che ha visto entrare
nell'ambito della tutela legale internazionale fasce di popolazione prima
escluse (donne, bambini, immigrati, popoli etnici e persone con disabilità).
Dagli anni Ottanta del Novecento è andata poi crescendo la
globalizzazione economica, che spesso cozza con quella dei
diritti, addirittura mettendoli in discussione sulla base delle risorse
disponibili. Vi sono ad esempio teorici americani, come Peter Singer,
secondo i quali non solo i diritti dovrebbero dipendere dalla risorse
disponibili, ma anche i beneficiari dei diritti stessi dovrebbero essere
selezionati secondo parametri di convenienza della società, escludendo, per
dirne una, le persone con disabilità intellettiva.
Appare evidente
che tale impostazione preluderebbe a forme di eutanasia sociale non tanto
diverse da quelle promosse dal regime nazista ed è anche per queste ragioni che
è importante sottolineare come sviluppo e inclusione siano ormai un binomio
inscindibile e che bisogna lavorare per far sì che questo venga percepito a
livello internazionale come una necessità.
Pensiamo all'ormai "celebre"
esternazione del ministro dell'Economia Tremonti , nell'estate scorsa,
sui «2 milioni e 700.000 invalidi che rendono l'Italia non competitiva». In
realtà il modello di welfare basato sulla cultura della protezione sociale - con
lo sviluppo che crea persone escluse dalla società e lo Stato che interviene per
mitigare gli effetti dell'esclusione, assistendole - è diventato ormai
insostenibile. La Convenzione sui Diritti delle Persone con Disabilità delle
Nazioni Unite mette in evidenza proprio che i meccanismi di esclusione e
discriminazione sono prodotti dalla stessa società, che "disabilita" una
parte di se stessa.
Lo Stato, quindi, dovrebbe intervenire con un
diverso criterio di giustizia, non più derivante da un modello medico della
disabilità - in cui le persone con disabilità sono "incapaci e malate", per cui
hanno bisogno di essere assistite e curate - bensì da un modello basato sui
diritti umani, in cui lo Stato interviene per sostenere l'inclusione sociale
degli esclusi, attraverso interventi che rimuovano barriere, ostacoli e
discriminazioni.
Se lo Stato offre un sostegno per lo sviluppo delle
loro capacità e sostiene la loro capacitazione e abilitazione, quelle persone
potranno partecipare attivamente alla società e saranno quindi
"produttive", pagheranno le tasse e così via. Ma se lo Stato invece
taglia la spesa sociale e non dà nessun sostegno, quelle persone rimarranno
escluse, discriminate, senza eguaglianza di pari opportunità e sarà proprio lo
Stato ad averle fatte diventare "un peso".
I due concetti innovativi - lo
sviluppo inclusivo da un lato e dall'altro la già citata
capability , cioè un intervento appropriato per dare a quelle
persone un sostegno nel diventare Cittadini - hanno dietro di sé questa nuova
idea di giustizia, molto differente ad esempio da quella del ministro
Tremonti, che in maniera implicita sembra quasi sposare delle teorie di
eutanasia sociale. Basti vedere in quale maniera truffaldina - sempre
nell'estate scorsa - aveva accreditato l'idea di colpire i cosiddetti "falsi
invalidi", mentre invece riduceva le provvidenze alle persone che
necessitavano di sostegni più intensi. Ed è proprio con questa logica che dal
mese di giugno scorso le persone con disabilità sono colpite da provvedimenti
governativi che le penalizzano nella scuola, nel mondo del lavoro, nelle
provvidenze economiche.
Di fronte a tutto ciò brilla l'idea di giustizia
scaturita dalla Convenzione ONU, ove si afferma che le persone devono essere
rafforzate nella loro capacità (empowerment), incluse nella società e
partecipare allo sviluppo come tutte le altre, decidendo sulla propria vita
come tutti i Cittadini.
Un ulteriore interessante spunto proveniente
dallo studio di Stuckler, Basu e McKee è la distinzione che viene fatta tra
spese sanitarie e spese sociali. Rapportato alla disabilità, questo
distinguo è fondamentale. Si verificano infatti situazioni in cui lo
Stato finanzia spese sanitarie, senza che a volte ne risultino benefìci pratici.
Basti pensare alla "riabilitazione perenne" di cui sono oggetto molte persone in
condizioni di cronicità. Anche le recenti Linee Guida
sulla Riabilitazione [è il Piano di Indirizzo per la Riabilitazione,
recentemente illustrato dal Ministero della Salute, N.d.R.], invece di
sposare i moderni concetti di abilitazione ed empowerment, che impregnano la
Convenzione ONU, attivando ben altre azioni nel campo dei servizi sanitari,
educativi, lavorativi e sociali, si fermano all'idea di giustizia del "curare
e assistere".
Se invece si sviluppassero servizi appropriati di sostegno
all'inclusione, qualificando la spesa sociale, si creerebbero migliori
condizioni di vita per tutte quelle persone e per la società nel suo complesso.
Quindi la ricerca solleva in maniera indiretta una riflessione su quali
interventi mettere in campo e in che maniera sostenerne la partecipazione nella
società di quegli stessi gruppi di persone.
In questo studio la mortalità è
uno degli indicatori, ma probabilmente se vi fossero anche degli indicatori di
partecipazione e di empowerment , scopriremmo che quegli
interventi porterebbero le persone a non essere assolutamente dei pesi, ma
addirittura a diventare dei Cittadini attivi, pienamente partecipi della
società.
Infine, è interessante notare come i tre ricercatori coinvolti in
questo studio provengano da ambienti prettamente medici, sintomo
importante, questo, del fatto che anche all'interno delle professioni mediche si
sta arrivando a una riflessione più attenta. Forse, in tal senso, l'
ICF [la Classificazione
Internazionale sul Funzionamento, la Salute e la Disabilità, prodotta nel 2001
dall'Organizzazione Mondiale della Sanità, N.d.R.] e la Convenzione ONU
stanno producendo anche nei ricercatori e negli operatori una lettura
diversa, basata sul modello di disabilità centrata sul rispetto dei diritti
umani, che finalmente inizia a produrre studi diversi. Purtroppo questa
riflessione tocca ancora ben poco i nostri professionisti e men che mai i
nostri decisori politici.
* Paul Benklmoun è una delle firme con
maggiore esperienza in problemi sanitari e sociali del quotidiano francese «Le
Monde». Tra i suoi articoli recentemente ripresi in Italia, segnaliamo ad
esempio La grande truffa della "suina" (raggiungibile nel sito de «La Stampa»,
cliccando qui). Ha pubblicato anche il libro Morti senza ricetta. La salute come
merce (Milano, Eleuthera, 2002).
Su alcune delle questioni trattate
nel presente testo, suggeriamo anche - sempre nel sito di superando.it- la
lettura di: Non funziona quel
Piano di Indirizzo ministeriale ; Diamo i numeri,
quelli giusti, però! (Franco Bomprezzi); Lo sterminio delle
persone con disabilità come preludio dell'Olocausto
(Giovanni De Martis); È la società che va
riabilitata a rispettare i diritti umani delle persone!
(Giampiero Griffo).
29 ottobre 2010