fonte www.personecondisabilità.it - Per quattro anni una famiglia ha pagato l'equivalente di 20 milioni di lire per garantire l'assistenza scolastica al figlio. A più di dieci anni di distanza non ha ancora avuto giustizia. "Richiesta di compartecipazione illegittima".

Mario e Sara (tutti i nomi usati non sono quelli reali, ndr) vivono in un piccolo Comune in Lombardia e  sono i genitori di un ragazzo con disabilità a cui - dopo essere stato operato di idrocefalo a soli sei mesi - è stato diagnosticato all'età di tre anni un disturbo dello spettro autistico (ASD). Pietro è invalido al 100%. Mario e Sara sanno che dall'autismo non si guarisce. Ma sanno anche che con un intervento precoce e globale si possono ottenere miglioramenti importanti, che influiscono positivamente sulla qualità della vita di questi bambini. E così i due genitori si rimboccano le maniche.

Su consiglio del neuropsichiatra, iscrivono Pietro alla scuola d'infanzia, per iniziare al più presto l'intervento di cui il bambino ha bisogno. Ma per frequentare la scuola d'infanzia occorre inserire nell'istituto anche un assistente educatore. Una figura professionale che va ad affiancare l'insegnante di sostegno che, a quel tempo, poteva seguire Pietro solo per la metà delle ore di frequenza.

Per i quattro anni in cui Pietro frequenta la scuola dell'infanzia (uno in più rispetto agli altri bambini) il Comune di residenza della famiglia chiede una compartecipazione alla spesa pari a circa 20 milioni di vecchie lire (oggi Pietro è maggiorenne). "Il nostro è un piccolo Comune con un migliaio di residenti e il nostro caso era forse il primo di una certa gravità - scrivono i genitori in una lettera aperta per denunciare la situazione -. Abbiamo sempre pagato quello che ci veniva richiesto, sennonché siamo venuti a conoscenza di situazioni analoghe, in altri Comuni altrettanto piccoli, appartenenti alla stessa Comunità Montana, dove questo servizio era motivo di vanto poiché era ad accesso libero e gratuito".

"L'erogazione del servizio di assistenza all'autonomia è fondamentale per garantire la piena inclusione scolastica degli alunni con disabilità su base di uguaglianza con gli altri e pertanto, in presenza di idonea documentazione, deve  essere garantito in forma gratuita a tutti gli alunni con disabilità, a prescindere dal luogo di residenza o qualsiasi altra condizione familiare o sociale – commenta l'avvocato Giulia Grazioli del Centro Antidiscriminazione Franco Bomprezzi -. La richiesta di compartecipazione al costo del servizio di assistenza avanzata da questo Comune costituisce di fatto una grave forma di discriminazione sanzionabile ai sensi della legge 67/2006".

Nel 2004 inizia così una lunga trattativa con il Comune di residenza. Il sindaco si impegna a non chiedere più la compartecipazione alla spesa, ma non vuole restituire la quota già versata dalla famiglia per garantire a Pietro il diritto ad andare a scuola. Anche il regolamento comunale - scritto ad hoc proprio per dare una risposta alla richiesta dei genitori - viene modificato solo quando la famiglia decide di portare il Comune in tribunale, nel 2005.

Nel settembre 2009, dopo circa quattro anni, arriva la decisione del Giudice di primo grado che condanna il Comune a risarcire alla famiglia la quota di compartecipazione versata, in quanto illegittima. Ma la successiva sentenza di Appello (che arriva nel novembre 2016, dopo circa sette anni di attesa) annulla la decisione di primo grado. I giudici infatti stabiliscono un "difetto di giurisdizione del giudice ordinario in favore del giudice amministrativo". In altre parole, la decisione sulla vicenda spetta al Tar e non al tribunale ordinario. "Di conseguenza, la nostra famiglia ha dovuto nuovamente restituire la quota di compartecipazione - spiegano Mario e Sara -. Dopo 11 anni, siamo tornati al punto di partenza. Ma rafforzati nella convinzione che i servizi dipendono dall'intelligenza e dalla sensibilità di chi amministra e non dall'applicazione di una legge che dovrebbe essere uguale per tutti".

Una situazione sconfortante col sapore di una beffa. Soprattutto se si pensa che una famiglia in una situazione analoga a quella di Mario e Sara aveva deciso di trasferire la propria residenza in un altro Comune, dove aveva ottenuto per la figlia assistenza gratuita. "Noi, invece, che abbiamo scelto un'altra strada, abbiamo dovuto rinunciare a percorrerla fino infondo per una tutela nei confronti del ragazzo, per non spendere altro denaro che di certo verrà utile per il suo futuro. Con molta amarezza e un forte senso di impotenza, vogliamo chiedere a questi individui se sanno di aver portato via del denaro a una famiglia che già di per sé indebolita dal fatto che uno dei genitori si occupa del disabile e difficilmente troverà un impiego. E che il denaro lo risparmia per garantire sia un futuro a quel figlio che non potrà mai conseguire un reddito personale proprio, sia un futuro più sereno ai fratelli che avranno l'onere di occuparsene".

 

12 aprile 2017