Fonte www.superando.it - Nell’ambito del progetto Disabilità: la discriminazione non si somma, si moltiplica – Azioni e strumenti innovativi per riconoscere e contrastare le discriminazioni multiple, lanciato alcuni mesi fa dalla FISH* (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap), con il finanziamento del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali (Direzione Generale del Terzo Settore e della Responsabilità Sociale delle Imprese – Avviso n. 1/2018), presentiamo oggi ai Lettori uno degli esiti dello stesso, ovvero un’approfondita analisi sulla disabilità “quando diventa anziana” e, in particolare, sull’impatto che il compimento dei 65 anni ha sulla vita delle persone.
A curare tale contributo è Giulia Bassi del Centro Antidiscriminazione Franco Bomprezzi della LEDHA, la Lega per i Diritti delle Persone con Disabilità che costituisce la componente lombarda della FISH.

La recente emergenza coronavirus ha reso evidente che esiste un momento della vita in cui si diventa maggiormente vulnerabili, momento che viene fatto coincidere con il compimento dei 65 anni, età a partire da cui, convenzionalmente, si è considerati anziani. In realtà, questo parametro, che incontra il consenso dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), se calato nel contesto italiano, potrebbe far sorgere dei dubbi circa la sua adeguatezza. L’aumento della qualità della vita ha infatti determinato un progressivo invecchiamento della nostra popolazione, che è oggi fra le più longeve. Allo stesso tempo, notevolmente migliorate appaiono anche le condizioni di salute e di benessere delle persone considerate anziane, rispetto a soli venti o trent’anni fa.

Dai dati contenuti nell’ultimo Rapporto ISTAT (dati aggiornati al 1° gennaio 2019: ISTAT, Rapporto annuale 2019, capitolo 3), emerge che gli ultrasessantacinquenni costituiscono il 22,8% della popolazione italiana (13,8 milioni). E la previsione è che la speranza di vita, attualmente di 80,8 anni per gli uomini e 85,2 per le donne, sia destinata a salire, determinando così un incremento dei cosiddetti “grandi anziani”, che rappresentano già il 3,6% della popolazione (2,2 milioni).

Il fenomeno del progressivo invecchiamento non ha incidenze solo numeriche, ma anche sulla stessa percezione dell’anzianità. Si può infatti ritenere che oggi si è considerati “anziani” non tanto nel momento in cui si compiono 65 anni, quanto in quello in cui si perdono in modo significativo le condizioni di autonomia e si assiste a un peggioramento della propria condizione di salute.

Secondo recenti stime, la perdita significativa dell’autonomia e della salute riguarda più del 20% degli ultrasessantacinquenni 65enni (Dati ISTAT dal primo Rapporto sulla Disabilità del 2019). Ciò significa che nel nostro Paese circa un milione e mezzo di ultrasessantacinquenni potrebbe vivere in una condizione di disabilità. Di questi, una parte avrebbe acquisito una disabilità per ragioni connesse all’avanzamento dell’età, un’altra ne avrebbe già avuta una prima di compiere 65 anni.

La distinzione appena fatta, e non in modo casuale, è rappresentativa della prassi di guardare agli anziani con disabilità in modo differente a seconda del momento in cui abbiano acquisito la propria disabilità, se prima o dopo i 65 anni.

In questo lavoro, l’attenzione si focalizzerà sulle persone con disabilità diventate anziane e, in particolare, sull’impatto che il compimento dei 65 anni ha sulle loro vite. A 65 anni, infatti, come si avrà modo di vedere, la persona con disabilità, agli occhi del nostro ordinamento e del sistema di welfare, cessa di essere considerata tale e diventa anziana non autosufficiente.

Verranno quindi analizzate le conseguenze di questo automatismo e si cercherà di stabilire se, ai sensi della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, possano essere considerate legittime.

*A cui Anffas aderisce

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